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Meditazioni

La Creatura più Eloquente

La tradizione ci insegna che, nel primo giorno, il Signore fece le prime 7 opere della creazione in silenzio, fino alla luce, quando parlò e la sua voce emerse dalle tenebre del silenzio, e creò la luce come ottava creazione del primo giorno.
Questo ci ricorda che il silenzio precede la parola e la prepara, e che soltanto chi padroneggia il silenzio, imparando ad ascoltare, può diventare pienamente padrone della parola e maneggiarla con autorità.
Nel primo giorno Egli dunque creò gli esseri parlanti, gli angeli, senza parlare Egli Stesso.
Invece, nei giorni successivi avrebbe creato molti esseri non parlanti o privi di parola razionale, come i vegetali e le rocce e gli animali, parlando Egli Stesso.
Fino al Venerdì. Quando creò l’uomo come un essere parlante e razionale, parlando Egli Stesso.
E’ per questo che l’uomo è la creatura eloquente di Dio, quella che parla più di tutte.
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Haile Selassie I - Insegnamenti

La Punizione dell’Arrogante

“Abbiamo visto dagli avvenimenti della storia come Dio, nella Sua profonda giustizia, non manca mai di eseguire retto giudizio, e per questo il nostro rendimento di grazie e la nostra lode a Lui sono senza limiti. Ma, per quanto il retto giudizio di Dio sia sempre stato infallibile nel punire l’arrogante, dacché la libertà è una questione da cui dipende la stessa esistenza nazionale, diventa un sacro obbligo di primaria importanza per un popolo di una sola famiglia, unito nella sua vita comune e nell’unità di mente e spirito, preservare il suo libero e piacevole modo di vivere da tutti i pericoli esterni, e dunque essere in grado di avanzare lungo il sentiero del progresso.”

— Sua Maestà Imperiale Haile Selassie I —

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Liberazione Africana

L’Insegnamento di Malcolm X

“Non potete odiare
le radici di un albero
e non odiare l’albero stesso.
Non potete odiare l’Africa
senza odiare voi stessi.”
**********************
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Cucina I-Tal ed Etiope

Cucina Tradizionale Etiope – Lo Shiro

Si tratta di una farina di ceci (Shinbrà ሽንብራ) o piselli etiopi, trattata con spezie tradizionali:
– Korerima ኮረሪማ / Semi di Cardamomo
– Nech Azmud ነጭ አዝሙድ / Cumino Bianco
– Tiqur Azmud ጥቁር አዝሙድ / Cumino Nero, Kalongi
– Besobla በሶብላ / Basilico
– Zinjebil ዝንዽብል / Zenzero
– Cchew ጨው / Sale
Si cuoce nel tegame di terracotta.
Si prepara preliminarmente un soffritto in olio con abbondante aglio e cipolla, e radice di zenzero opzionale.
Una volta dorato il soffritto, si aggiunge acqua abbondante proporzionata al quantitativo di shiro necessario. A questo punto è possibile aggiungere del pomodoro fresco a pezzi (o passata) nell’acqua.
Quando l’acqua va in ebollizione, si versa un cucchiaio abbondante di polvere di shiro a persona, spargendolo a pioggia e maneggiando in maniera simile alla polenta.
Si aggiunge il sale e si fa cuocere a fuoco lentissimo senza coperchio, mescolando frequentemente, fino a quando non si forma una purea densa. Bisogna considerare minimo 20 minuti di bollore, aggiustando eventualmente di acqua quando necessario.
Quando lo shiro è pronto chi vuole può eventualmente aggiungere del burro (preferibilmente etiope). Si finisce mettendovi all’interno del peperoncino lungo verde (karya), piccante o dolce. La farina è già piccante e speziata di partenza e non conviene aggiungere altro.
Da servire sull’injera, ma anche facilmente adattabile al riso e al pane.
Melkam Megheb !!! (Buon Appetito)

 

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Arte Visiva

L’Arte di Ras Zakaryas

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Guerra Italo-Etiopica

Il 5 Maggio 1941, Liberazione dell’Etiopia dal Fascismo

YeNetzannet Qen

L’Etiopia fu liberata dal Fascismo, prima tra tutte le nazioni del mondo, il 5 Maggio 1941.

Rileggete quella vecchia poesia di Manzoni (5 Maggio), per cogliere l’eternità profetica dell’evento. Moriva Napoleone, il Leone di Napoli. E qui muore “Napoloni” (come il buon Charlie Chaplin chiama Mussolini nel “Grande Dittatore”). Eterno mistero dell’italiano imperialista esaltato, e poi calpestato.

E tuttavia perdonato. Perché non siamo in Yugoslavia e non c’è Tito, c’è lo Spirito di Cristo, e seppur la vittoria nel 1941 sia lontana, la prima cosa che fa il Re al rientro è garantire l’amnistia a tutti i suoi nemici, e una fetta consistente di famiglie italiane è tutt’ora viva a motivo di questa grazia ignorata, di cui loro non sarebbero capaci.

Nella foto, Haile Selassie I calpesta una bomba inesplosa, sotto lo sguardo attonito dei suoi soldati, e si fa fare una foto. Erano i giorni dell’invasione, e gli Italiani gassavano la popolazione con l’iprite, ed abusavano slealmente di tutti i loro vantaggi tecnologici. Haile Selassie I è in prima linea, sotto le bombe, sotto il fuoco, con la mitragliatrice in mano, con il piede sulla bomba. Partigiano prima dei Partigiani. Difensore degli oppressi.

E Mussolini, chi l’ha mai visto combattere la guerra che lui stesso aveva originato ? Finirà appeso e sputato, mentre il Re riprenderà posto sul Suo trono d’oro.

Come sapeva molto bene quel giorno, in cui decise di farsi fare una foto “da incosciente”, per dare speranza a tutti i popoli dei mondo spaventati dal fascismo.

Lui, nel mezzo del diluvio di fuoco, era così tranquillo..

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Arte Visiva

Ras Terms – Copertina di “Naturally” – Biblical

Egli è il luogo senza luogo.
L’occhio della Sua mente è la visione del Creatore.
Creò ogni cosa visibile e invisibile dal suono della Sua Parola.
Il Rasta contempla il Suo mistero in tutte le cose che lo circondano, come se esplorasse la Sua mente.
E celebra la Sua meraviglia con il tamburo del suo cuore.

 

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Guerra Italo-Etiopica

La Statua del Leone di Giuda fu portata a Roma dai Fascisti

Dopo l’occupazione del 1936, i Fascisti rubarono il monumento del Leone di Giuda che si trovava ad Addis, e lo deposero, a Roma, ai piedi dell’obelisco commemorativo dei caduti di Dogali, ovvero gli sconfitti della prima aggressione italiana ai danni dell’Etiopia, avvenuta alla fine dell’800.

Nel 1960, l’Italia nuovamente sconfitta riconsegnerà il Leone, tutt’ora custodito ad Addis e visitabile presso la sua stazione ferroviaria.

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Haile Selassie I - Profezie

Le Vesti Rosse dell’Incoronazione

“I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui. E’ avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio.”

Apocalisse 19,12-13

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Haile Selassie I - Testimonianze

Angelo Del Boca, Giornalista e Storico del Colonialismo Italiano, 1960

Tratto da “Da Mussolini a Gheddafi – Quaranta incontri”, 2012 Neri Pozza Editore. (Cap. 20. Hailè Selassiè I)

“Una sera dell’ottobre 1935 fui convocato nei locali della Federazione del fascio a Novara. Avevo dieci anni ed ero balilla. Al Fascio ci distribuirono grosse torce di stoppa e resina. ‘Tu! Prendi questa bottiglia’ mi disse il capocenturia. ‘Stai attento. E’ benzina’. Il personaggio da bruciare era lì in un canto, disteso su una barella, con mani e piedi legati da grosse catene. Era ras Tafari, l’imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè. Fatto di cartapesta, grande al naturale, con un volto piuttosto negroide e incorniciato da una ispida e nerissima barba, aveva la bocca atteggiata a ghigno e nelle profonde orbite brillavano due occhi cattivi, iniettati di sangue.

(…) Il federale, che aveva curato la regia della dimostrazione antinegussita, decise che l’imperatore sarebbe andato al rogo sotto i grandi platani di Baluardi, dove si poteva ricreare l’atmosfera pagana dei grandi riti nazisti. E sotto gli alberi, infatti, la barella fu deposta a terra e mi fu dato l’incarico di cospargere il Negus di benzina. (…) Fu soltanto quando si levarono alte le fiamme e l’imperatore cominciò a contorcersi, quasi avesse voluto liberarsi dalle catene, che cominciai ad avvertire un vago senso di avvilimento, come dopo una cattiva azione.

Una mattina di luglio del 1960, a venticinque anni di distanza, rivedo l’imperatore nel grande ghebì di Menelik, dove lavora, riceve in udienza e una volta alla settimana amministra la giustizia. (…). Quando i due valletti in livrea bianca spalancheranno la porta dello studio privato del re dei re e lui apparirà in fondo al salone, in piedi, accanto a un mappamondo, nella divisa kaki di maresciallo dell’impero, l’ospite varcherà la soglia e farà il primo inchino, poi, camminando sulla passatoia rossa, si porterà a metà circa del salone e lì farà un secondo inchino, e infine un terzo nell’atto di ricevere la stretta di mano del Negus Negast Hailè Selassiè, l’Eletto di Dio, il Leone Conquistatore della tribù di Giuda, il 225° imperatore discendente in linea diretta da Salomone e Saba.

(…) Mi ero ripromesso, più di una volta, che se un giorno mi fossi trovato alla presenza di Hailè Selassiè gli avrei raccontato la storia del rogo sotto i platani della mia città, e gli avrei chiesto perdono per la mia ragazzata. Ma di fronte a lui non trovo il coraggio di farlo e inizio con il pistolotto politico che mi sono preparato: ‘L’Italia del 1960 non è l’Italia del 1935’.

L’imperatore mi ascolta, irrigidito sull’orlo della sedia, il petto coperto da dodici file di decorazioni e dalle mostrine rosse con le spighe d’oro. I suoi occhi, grandi, scuri, vivacissimi, non si staccano nemmeno per un istante dai miei. Nell’imbarazzo, ricordo che anche il ministro plenipotenziario Renato Piacentini – che era un gigante e aveva il petto irto di medaglie – presentando le sue credenziali ad Hailè Selassiè nel lontano 1922 si sentì intimidire da quegli occhi, al punto da riferire poi agli amici che quell’imperatore piccolo e fragile non soffriva certo di complessi d’inferiorità.

(…) Mi sembra giusto ricordare, come esordio, che la lunga battaglia condotta per la libertà del suo paese, la grandezza d’animo da lui dimostrata prendendo subito le difese degli italiani rimasti dopo la sconfitta in Etiopia, la sua adesione alla dottrina della sicurezza collettiva e l’appoggio dato al risveglio del continente africano, gli hanno procurato anche in Italia molti amici e ammiratori.

(…)Le sue labbra si muovono appena, ma il suo francese è corretto, impeccabile. Gli occhi, mentre parla, sono ora fissi su una parete ricoperta di carte geografiche e di tabelle sullo sviluppo economico dell’Etiopia. Con il busto rigido, i gomiti appoggiati ai braccioli della seggiola, le mani unite sulle ginocchia, l’imperatore non dimostra i quasi settant’anni che ha. Eppure poche esistenze sono state più complete della sua, più travagliate da lotte e avversità. Da quarantatrè anni questo monarca minuto e fragile rappresenta l’Etiopia. Anzi, è l’Etiopia. Reggente dal 1917 al 1930, tiene a bada il rivale fitaurari Habte Ghiorghis, sprona l’imperatrice Zauditù a mostrarsi più liberale, sconfigge, esilia o sottomette, uno dopo l’altro, ras Gugsa, ras Kassa, ras Hailù e il governatore del Sidamo, ribelli all’autorità centrale. Divenuto imperatore, intensifica l’opera di centralizzazione e di modernizzazione del paese.

Ma erano appena rientrati dalle università straniere i primi giovani laureati, che l’Italia fascista, in ritardo di mezzo secolo sulle altre potenze colonialiste, decideva di procurarsi ‘un posto al sole’ a spese dell’unico Stato ancora indipendente dell’Africa. La prima élite etiopica cadeva così sui campi di battaglia e Hailè Selassiè, rientrato ad Addis Abeba cinque anni dopo la sconfitta, doveva ricominciare tutto daccapo, opponendosi al conservatorismo dell’aristocrazia feudale e della Chiesa copta, sventando ogni sorta di congiura e lottando contro la leggerezza e l’incompetenza dei suoi collaboratori. (…)

Sa che il modo più rapido per strappare l’Etiopia alle sue tradizioni feudali è quello di incoraggiare l’istruzione. (…) Probabilmente lo sa anche Hailè Selassiè che, puntando tutto sull’educazione di massa del suo popolo, così facendo mina con le proprie mani il suo enorme potere. Ma non può sottrarsi al destino che affida proprio a lui, monarca assoluto, il compito di portare, anche se con modi paternalistici, un impero feudale verso forme di vita più liberali.

(…) Pur conoscendo le aspirazioni dei somali sull’Ogaden, Hailè Selassiè non sembra molto preoccupato. In quarant’anni di regno è scampato alle congiure di ras ribelli, alle invasioni, ai tranelli tesigli dalle nazioni ‘amiche’ dell’Europa, affinando nel frattempo la sua sensibilità politica, dando prova di una scaltrezza, di una tempestività nelle decisioni e di un’abilità diplomatica fuori dal comune. (…)

E chi oggi teme che egli abbia ceduto alle lusinghe dei sovietici rivela di ignorare tutto della sua politica. Caso mai si potrà incolparlo di eccessiva astuzia, non certo di imprudenza. Hailè Selassiè soffre di una vera allergia per coloro che cercano anche solo di scalfire la sua sovranità. Sempre sospettoso, capta le più lontane minacce con la precisione di uno strumento scientifico. Nasser, che è universalmente conosciuto come un esperto nel difficile gioco del neutralismo positivo, ha ancora molto da imparare da Hailè Selassiè.

La conversazione dura da circa mezz’ora e l’imperatore non ha mutato posizione. Col busto eretto, le mani sottili e piccole posate sulle ginocchia, il volto di marmo illuminato dagli occhi più dolci e insieme più fieri che abbia mai visto, egli sopporta con molta dignità il tremendo carico di titoli che fanno di lui il monarca più blasonato della terra: Re dei Re, Leone Conquistatore della tribù di Giuda, Eletto di Dio, Potenza della Trinità, Capo della Chiesa Copta, imperatore d’Etiopia. Antico, per sangue, come Ninive e Babilonia, discendente diretto di personaggi come Salomone e Saba, più legati alla leggenda che alla storia, fa quasi meraviglia sentirlo parlare di problemi del nostro tempo (…).

Antico anche nell’aspetto (nonostante la divisa kaki da maresciallo) per quella sua folta barba da patriarca e gli occhi che sembrano quelli dei profeti dipinti nelle chiese copte di Lalibela, tradisce invece l’ambizione di non essere secondo a nessuno in Africa (…)

L’imperatore Haile Selassiè I è in piedi. Gli stringo la mano e, a ritroso, esco dalla sala, compiendo i tre inchini di rito. Per un istante, credo di scorgere sulle sue labbra un leggero sorriso, che interpreto come una scusa per il rigore del cerimoniale. Poi, lentamente i battenti della grande porta vengono accostati, ma fino all’ultimo avverto i suoi occhi, dolci, fieri, scurissimi. Gli occhi dei profeti di Lalibela. Gli occhi dei guerrieri scolpiti nella antiche pietre della città santa di Axum.

Quindi due giovani ufficiali mi prendono in mezzo e, imponendomi un passo quasi cadenzato, mi fanno ripercorrere i lunghi corridoi del ghebì di Menelik fino alla scalinata dell’ingresso e al giardino, dove un vecchio leone si stira pigramente al sole.”Da “Da Mussolini a Gheddafi – Quaranta incontri”, 2012 Neri Pozza Editore. (Cap. 20. Hailè Selassiè I)

“Una sera dell’ottobre 1935 fui convocato nei locali della Federazione del fascio a Novara. Avevo dieci anni ed ero balilla. Al Fascio ci distribuirono grosse torce di stoppa e resina. ‘Tu! Prendi questa bottiglia’ mi disse il capocenturia. ‘Stai attento. E’ benzina’. Il personaggio da bruciare era lì in un canto, disteso su una barella, con mani e piedi legati da grosse catene. Era ras Tafari, l’imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè. Fatto di cartapesta, grande al naturale, con un volto piuttosto negroide e incorniciato da una ispida e nerissima barba, aveva la bocca atteggiata a ghigno e nelle profonde orbite brillavano due occhi cattivi, iniettati di sangue.

(…) Il federale, che aveva curato la regia della dimostrazione antinegussita, decise che l’imperatore sarebbe andato al rogo sotto i grandi platani di Baluardi, dove si poteva ricreare l’atmosfera pagana dei grandi riti nazisti. E sotto gli alberi, infatti, la barella fu deposta a terra e mi fu dato l’incarico di cospargere il Negus di benzina. (…) Fu soltanto quando si levarono alte le fiamme e l’imperatore cominciò a contorcersi, quasi avesse voluto liberarsi dalle catene, che cominciai ad avvertire un vago senso di avvilimento, come dopo una cattiva azione.

Una mattina di luglio del 1960, a venticinque anni di distanza, rivedo l’imperatore nel grande ghebì di Menelik, dove lavora, riceve in udienza e una volta alla settimana amministra la giustizia. (…). Quando i due valletti in livrea bianca spalancheranno la porta dello studio privato del re dei re e lui apparirà in fondo al salone, in piedi, accanto a un mappamondo, nella divisa kaki di maresciallo dell’impero, l’ospite varcherà la soglia e farà il primo inchino, poi, camminando sulla passatoia rossa, si porterà a metà circa del salone e lì farà un secondo inchino, e infine un terzo nell’atto di ricevere la stretta di mano del Negus Negast Hailè Selassiè, l’Eletto di Dio, il Leone Conquistatore della tribù di Giuda, il 225° imperatore discendente in linea diretta da Salomone e Saba.

(…) Mi ero ripromesso, più di una volta, che se un giorno mi fossi trovato alla presenza di Hailè Selassiè gli avrei raccontato la storia del rogo sotto i platani della mia città, e gli avrei chiesto perdono per la mia ragazzata. Ma di fronte a lui non trovo il coraggio di farlo e inizio con il pistolotto politico che mi sono preparato: ‘L’Italia del 1960 non è l’Italia del 1935’.

L’imperatore mi ascolta, irrigidito sull’orlo della sedia, il petto coperto da dodici file di decorazioni e dalle mostrine rosse con le spighe d’oro. I suoi occhi, grandi, scuri, vivacissimi, non si staccano nemmeno per un istante dai miei. Nell’imbarazzo, ricordo che anche il ministro plenipotenziario Renato Piacentini – che era un gigante e aveva il petto irto di medaglie – presentando le sue credenziali ad Hailè Selassiè nel lontano 1922 si sentì intimidire da quegli occhi, al punto da riferire poi agli amici che quell’imperatore piccolo e fragile non soffriva certo di complessi d’inferiorità.

(…) Mi sembra giusto ricordare, come esordio, che la lunga battaglia condotta per la libertà del suo paese, la grandezza d’animo da lui dimostrata prendendo subito le difese degli italiani rimasti dopo la sconfitta in Etiopia, la sua adesione alla dottrina della sicurezza collettiva e l’appoggio dato al risveglio del continente africano, gli hanno procurato anche in Italia molti amici e ammiratori.

(…)Le sue labbra si muovono appena, ma il suo francese è corretto, impeccabile. Gli occhi, mentre parla, sono ora fissi su una parete ricoperta di carte geografiche e di tabelle sullo sviluppo economico dell’Etiopia. Con il busto rigido, i gomiti appoggiati ai braccioli della seggiola, le mani unite sulle ginocchia, l’imperatore non dimostra i quasi settant’anni che ha. Eppure poche esistenze sono state più complete della sua, più travagliate da lotte e avversità. Da quarantatrè anni questo monarca minuto e fragile rappresenta l’Etiopia. Anzi, è l’Etiopia. Reggente dal 1917 al 1930, tiene a bada il rivale fitaurari Habte Ghiorghis, sprona l’imperatrice Zauditù a mostrarsi più liberale, sconfigge, esilia o sottomette, uno dopo l’altro, ras Gugsa, ras Kassa, ras Hailù e il governatore del Sidamo, ribelli all’autorità centrale. Divenuto imperatore, intensifica l’opera di centralizzazione e di modernizzazione del paese.

Ma erano appena rientrati dalle università straniere i primi giovani laureati, che l’Italia fascista, in ritardo di mezzo secolo sulle altre potenze colonialiste, decideva di procurarsi ‘un posto al sole’ a spese dell’unico Stato ancora indipendente dell’Africa. La prima élite etiopica cadeva così sui campi di battaglia e Hailè Selassiè, rientrato ad Addis Abeba cinque anni dopo la sconfitta, doveva ricominciare tutto daccapo, opponendosi al conservatorismo dell’aristocrazia feudale e della Chiesa copta, sventando ogni sorta di congiura e lottando contro la leggerezza e l’incompetenza dei suoi collaboratori. (…)

Sa che il modo più rapido per strappare l’Etiopia alle sue tradizioni feudali è quello di incoraggiare l’istruzione. (…) Probabilmente lo sa anche Hailè Selassiè che, puntando tutto sull’educazione di massa del suo popolo, così facendo mina con le proprie mani il suo enorme potere. Ma non può sottrarsi al destino che affida proprio a lui, monarca assoluto, il compito di portare, anche se con modi paternalistici, un impero feudale verso forme di vita più liberali.

(…) Pur conoscendo le aspirazioni dei somali sull’Ogaden, Hailè Selassiè non sembra molto preoccupato. In quarant’anni di regno è scampato alle congiure di ras ribelli, alle invasioni, ai tranelli tesigli dalle nazioni ‘amiche’ dell’Europa, affinando nel frattempo la sua sensibilità politica, dando prova di una scaltrezza, di una tempestività nelle decisioni e di un’abilità diplomatica fuori dal comune. (…)

E chi oggi teme che egli abbia ceduto alle lusinghe dei sovietici rivela di ignorare tutto della sua politica. Caso mai si potrà incolparlo di eccessiva astuzia, non certo di imprudenza. Hailè Selassiè soffre di una vera allergia per coloro che cercano anche solo di scalfire la sua sovranità. Sempre sospettoso, capta le più lontane minacce con la precisione di uno strumento scientifico. Nasser, che è universalmente conosciuto come un esperto nel difficile gioco del neutralismo positivo, ha ancora molto da imparare da Hailè Selassiè.

La conversazione dura da circa mezz’ora e l’imperatore non ha mutato posizione. Col busto eretto, le mani sottili e piccole posate sulle ginocchia, il volto di marmo illuminato dagli occhi più dolci e insieme più fieri che abbia mai visto, egli sopporta con molta dignità il tremendo carico di titoli che fanno di lui il monarca più blasonato della terra: Re dei Re, Leone Conquistatore della tribù di Giuda, Eletto di Dio, Potenza della Trinità, Capo della Chiesa Copta, imperatore d’Etiopia. Antico, per sangue, come Ninive e Babilonia, discendente diretto di personaggi come Salomone e Saba, più legati alla leggenda che alla storia, fa quasi meraviglia sentirlo parlare di problemi del nostro tempo (…).

Antico anche nell’aspetto (nonostante la divisa kaki da maresciallo) per quella sua folta barba da patriarca e gli occhi che sembrano quelli dei profeti dipinti nelle chiese copte di Lalibela, tradisce invece l’ambizione di non essere secondo a nessuno in Africa (…)

L’imperatore Haile Selassiè I è in piedi. Gli stringo la mano e, a ritroso, esco dalla sala, compiendo i tre inchini di rito. Per un istante, credo di scorgere sulle sue labbra un leggero sorriso, che interpreto come una scusa per il rigore del cerimoniale. Poi, lentamente i battenti della grande porta vengono accostati, ma fino all’ultimo avverto i suoi occhi, dolci, fieri, scurissimi. Gli occhi dei profeti di Lalibela. Gli occhi dei guerrieri scolpiti nella antiche pietre della città santa di Axum.

Quindi due giovani ufficiali mi prendono in mezzo e, imponendomi un passo quasi cadenzato, mi fanno ripercorrere i lunghi corridoi del ghebì di Menelik fino alla scalinata dell’ingresso e al giardino, dove un vecchio leone si stira pigramente al sole.”

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