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Haile Selassie I - Testimonianze

I ricordi di Nelson Mandela

Tratto dalla sua autobiografia “Il lungo cammino verso la libertà” (1995)
“L’Etiopia ha sempre avuto un posto speciale nella mia immaginazione, e la prospettiva di visitare l’Etiopia mi attraeva molto di più che un viaggio in Francia, Inghilterra e America insieme. Sentivo di visitare la mia propria genesi, dissotterrando le radici di ciò che mi rende un Africano. Incontrare Sua Altezza, l’Imperatore Haile Selassie d’Etiopia, sarebbe stato come stringere la mano alla storia.” (…)
“Qui, per la prima volta nella mia vita, stavo assistendo a dei soldati neri comandati da generali neri, applauditi da leader neri che erano tutti ospiti di un capo di stato nero. Fu un momento inebriante. Sperai soltanto che fosse una visione di quello che si trovava nel futuro del mio proprio paese.” (…)
“La conferenza fu ufficialmente aperta da colui che ci ospitava, Sua Maestà Imperiale, che era vestito con un’elaborata uniforme militare broccata. Fui sorpreso di quanto l’imperatore apparisse piccolo, ma la sua dignità e confidenza lo facevano sembrare come il gigante Africano che era. Era la prima volta che assistevo all’opera di un capo di stato attraverso le formalità del suo ufficio, e ne fui affascinato. Egli stava perfettamente dritto, ed inclinava la sua testa soltanto lievemente per indicare che stava ascoltando. La dignità era il marchio distintivo di tutte le sue azioni.
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Haile Selassie I - Testimonianze

“Ogni occhio Lo vedrà”

Indovinate chi c’è nella prima foto a colori su giornale della storia… “Un’Altra Rivoluzione del Colore”
L’Imperatore d’Abissinia, che è il soggetto della prima fotografia a colori mai riprodotta da un giornale“…
(Daily Record, Quotidiano Scozzese, 22 Giugno 1936)
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Haile Selassie I - Testimonianze Liberazione Africana

L’inchino di Miriam Makeba

La grande cantante SudAfricana Miriam Makeba si inchina solennemente dinanzi ad Haile Selassie I nel 1963.

Miriam Makeba è stata un importante attivista panafricana, ed è recentemente morta in Italia, a Castel Volturno, dopo un concerto contro la camorra e a sostegno della comunità africana oppressa.

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Haile Selassie I - Testimonianze

Angelo Del Boca, Giornalista e Storico del Colonialismo Italiano, 1960

Tratto da “Da Mussolini a Gheddafi – Quaranta incontri”, 2012 Neri Pozza Editore. (Cap. 20. Hailè Selassiè I)

“Una sera dell’ottobre 1935 fui convocato nei locali della Federazione del fascio a Novara. Avevo dieci anni ed ero balilla. Al Fascio ci distribuirono grosse torce di stoppa e resina. ‘Tu! Prendi questa bottiglia’ mi disse il capocenturia. ‘Stai attento. E’ benzina’. Il personaggio da bruciare era lì in un canto, disteso su una barella, con mani e piedi legati da grosse catene. Era ras Tafari, l’imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè. Fatto di cartapesta, grande al naturale, con un volto piuttosto negroide e incorniciato da una ispida e nerissima barba, aveva la bocca atteggiata a ghigno e nelle profonde orbite brillavano due occhi cattivi, iniettati di sangue.

(…) Il federale, che aveva curato la regia della dimostrazione antinegussita, decise che l’imperatore sarebbe andato al rogo sotto i grandi platani di Baluardi, dove si poteva ricreare l’atmosfera pagana dei grandi riti nazisti. E sotto gli alberi, infatti, la barella fu deposta a terra e mi fu dato l’incarico di cospargere il Negus di benzina. (…) Fu soltanto quando si levarono alte le fiamme e l’imperatore cominciò a contorcersi, quasi avesse voluto liberarsi dalle catene, che cominciai ad avvertire un vago senso di avvilimento, come dopo una cattiva azione.

Una mattina di luglio del 1960, a venticinque anni di distanza, rivedo l’imperatore nel grande ghebì di Menelik, dove lavora, riceve in udienza e una volta alla settimana amministra la giustizia. (…). Quando i due valletti in livrea bianca spalancheranno la porta dello studio privato del re dei re e lui apparirà in fondo al salone, in piedi, accanto a un mappamondo, nella divisa kaki di maresciallo dell’impero, l’ospite varcherà la soglia e farà il primo inchino, poi, camminando sulla passatoia rossa, si porterà a metà circa del salone e lì farà un secondo inchino, e infine un terzo nell’atto di ricevere la stretta di mano del Negus Negast Hailè Selassiè, l’Eletto di Dio, il Leone Conquistatore della tribù di Giuda, il 225° imperatore discendente in linea diretta da Salomone e Saba.

(…) Mi ero ripromesso, più di una volta, che se un giorno mi fossi trovato alla presenza di Hailè Selassiè gli avrei raccontato la storia del rogo sotto i platani della mia città, e gli avrei chiesto perdono per la mia ragazzata. Ma di fronte a lui non trovo il coraggio di farlo e inizio con il pistolotto politico che mi sono preparato: ‘L’Italia del 1960 non è l’Italia del 1935’.

L’imperatore mi ascolta, irrigidito sull’orlo della sedia, il petto coperto da dodici file di decorazioni e dalle mostrine rosse con le spighe d’oro. I suoi occhi, grandi, scuri, vivacissimi, non si staccano nemmeno per un istante dai miei. Nell’imbarazzo, ricordo che anche il ministro plenipotenziario Renato Piacentini – che era un gigante e aveva il petto irto di medaglie – presentando le sue credenziali ad Hailè Selassiè nel lontano 1922 si sentì intimidire da quegli occhi, al punto da riferire poi agli amici che quell’imperatore piccolo e fragile non soffriva certo di complessi d’inferiorità.

(…) Mi sembra giusto ricordare, come esordio, che la lunga battaglia condotta per la libertà del suo paese, la grandezza d’animo da lui dimostrata prendendo subito le difese degli italiani rimasti dopo la sconfitta in Etiopia, la sua adesione alla dottrina della sicurezza collettiva e l’appoggio dato al risveglio del continente africano, gli hanno procurato anche in Italia molti amici e ammiratori.

(…)Le sue labbra si muovono appena, ma il suo francese è corretto, impeccabile. Gli occhi, mentre parla, sono ora fissi su una parete ricoperta di carte geografiche e di tabelle sullo sviluppo economico dell’Etiopia. Con il busto rigido, i gomiti appoggiati ai braccioli della seggiola, le mani unite sulle ginocchia, l’imperatore non dimostra i quasi settant’anni che ha. Eppure poche esistenze sono state più complete della sua, più travagliate da lotte e avversità. Da quarantatrè anni questo monarca minuto e fragile rappresenta l’Etiopia. Anzi, è l’Etiopia. Reggente dal 1917 al 1930, tiene a bada il rivale fitaurari Habte Ghiorghis, sprona l’imperatrice Zauditù a mostrarsi più liberale, sconfigge, esilia o sottomette, uno dopo l’altro, ras Gugsa, ras Kassa, ras Hailù e il governatore del Sidamo, ribelli all’autorità centrale. Divenuto imperatore, intensifica l’opera di centralizzazione e di modernizzazione del paese.

Ma erano appena rientrati dalle università straniere i primi giovani laureati, che l’Italia fascista, in ritardo di mezzo secolo sulle altre potenze colonialiste, decideva di procurarsi ‘un posto al sole’ a spese dell’unico Stato ancora indipendente dell’Africa. La prima élite etiopica cadeva così sui campi di battaglia e Hailè Selassiè, rientrato ad Addis Abeba cinque anni dopo la sconfitta, doveva ricominciare tutto daccapo, opponendosi al conservatorismo dell’aristocrazia feudale e della Chiesa copta, sventando ogni sorta di congiura e lottando contro la leggerezza e l’incompetenza dei suoi collaboratori. (…)

Sa che il modo più rapido per strappare l’Etiopia alle sue tradizioni feudali è quello di incoraggiare l’istruzione. (…) Probabilmente lo sa anche Hailè Selassiè che, puntando tutto sull’educazione di massa del suo popolo, così facendo mina con le proprie mani il suo enorme potere. Ma non può sottrarsi al destino che affida proprio a lui, monarca assoluto, il compito di portare, anche se con modi paternalistici, un impero feudale verso forme di vita più liberali.

(…) Pur conoscendo le aspirazioni dei somali sull’Ogaden, Hailè Selassiè non sembra molto preoccupato. In quarant’anni di regno è scampato alle congiure di ras ribelli, alle invasioni, ai tranelli tesigli dalle nazioni ‘amiche’ dell’Europa, affinando nel frattempo la sua sensibilità politica, dando prova di una scaltrezza, di una tempestività nelle decisioni e di un’abilità diplomatica fuori dal comune. (…)

E chi oggi teme che egli abbia ceduto alle lusinghe dei sovietici rivela di ignorare tutto della sua politica. Caso mai si potrà incolparlo di eccessiva astuzia, non certo di imprudenza. Hailè Selassiè soffre di una vera allergia per coloro che cercano anche solo di scalfire la sua sovranità. Sempre sospettoso, capta le più lontane minacce con la precisione di uno strumento scientifico. Nasser, che è universalmente conosciuto come un esperto nel difficile gioco del neutralismo positivo, ha ancora molto da imparare da Hailè Selassiè.

La conversazione dura da circa mezz’ora e l’imperatore non ha mutato posizione. Col busto eretto, le mani sottili e piccole posate sulle ginocchia, il volto di marmo illuminato dagli occhi più dolci e insieme più fieri che abbia mai visto, egli sopporta con molta dignità il tremendo carico di titoli che fanno di lui il monarca più blasonato della terra: Re dei Re, Leone Conquistatore della tribù di Giuda, Eletto di Dio, Potenza della Trinità, Capo della Chiesa Copta, imperatore d’Etiopia. Antico, per sangue, come Ninive e Babilonia, discendente diretto di personaggi come Salomone e Saba, più legati alla leggenda che alla storia, fa quasi meraviglia sentirlo parlare di problemi del nostro tempo (…).

Antico anche nell’aspetto (nonostante la divisa kaki da maresciallo) per quella sua folta barba da patriarca e gli occhi che sembrano quelli dei profeti dipinti nelle chiese copte di Lalibela, tradisce invece l’ambizione di non essere secondo a nessuno in Africa (…)

L’imperatore Haile Selassiè I è in piedi. Gli stringo la mano e, a ritroso, esco dalla sala, compiendo i tre inchini di rito. Per un istante, credo di scorgere sulle sue labbra un leggero sorriso, che interpreto come una scusa per il rigore del cerimoniale. Poi, lentamente i battenti della grande porta vengono accostati, ma fino all’ultimo avverto i suoi occhi, dolci, fieri, scurissimi. Gli occhi dei profeti di Lalibela. Gli occhi dei guerrieri scolpiti nella antiche pietre della città santa di Axum.

Quindi due giovani ufficiali mi prendono in mezzo e, imponendomi un passo quasi cadenzato, mi fanno ripercorrere i lunghi corridoi del ghebì di Menelik fino alla scalinata dell’ingresso e al giardino, dove un vecchio leone si stira pigramente al sole.”Da “Da Mussolini a Gheddafi – Quaranta incontri”, 2012 Neri Pozza Editore. (Cap. 20. Hailè Selassiè I)

“Una sera dell’ottobre 1935 fui convocato nei locali della Federazione del fascio a Novara. Avevo dieci anni ed ero balilla. Al Fascio ci distribuirono grosse torce di stoppa e resina. ‘Tu! Prendi questa bottiglia’ mi disse il capocenturia. ‘Stai attento. E’ benzina’. Il personaggio da bruciare era lì in un canto, disteso su una barella, con mani e piedi legati da grosse catene. Era ras Tafari, l’imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè. Fatto di cartapesta, grande al naturale, con un volto piuttosto negroide e incorniciato da una ispida e nerissima barba, aveva la bocca atteggiata a ghigno e nelle profonde orbite brillavano due occhi cattivi, iniettati di sangue.

(…) Il federale, che aveva curato la regia della dimostrazione antinegussita, decise che l’imperatore sarebbe andato al rogo sotto i grandi platani di Baluardi, dove si poteva ricreare l’atmosfera pagana dei grandi riti nazisti. E sotto gli alberi, infatti, la barella fu deposta a terra e mi fu dato l’incarico di cospargere il Negus di benzina. (…) Fu soltanto quando si levarono alte le fiamme e l’imperatore cominciò a contorcersi, quasi avesse voluto liberarsi dalle catene, che cominciai ad avvertire un vago senso di avvilimento, come dopo una cattiva azione.

Una mattina di luglio del 1960, a venticinque anni di distanza, rivedo l’imperatore nel grande ghebì di Menelik, dove lavora, riceve in udienza e una volta alla settimana amministra la giustizia. (…). Quando i due valletti in livrea bianca spalancheranno la porta dello studio privato del re dei re e lui apparirà in fondo al salone, in piedi, accanto a un mappamondo, nella divisa kaki di maresciallo dell’impero, l’ospite varcherà la soglia e farà il primo inchino, poi, camminando sulla passatoia rossa, si porterà a metà circa del salone e lì farà un secondo inchino, e infine un terzo nell’atto di ricevere la stretta di mano del Negus Negast Hailè Selassiè, l’Eletto di Dio, il Leone Conquistatore della tribù di Giuda, il 225° imperatore discendente in linea diretta da Salomone e Saba.

(…) Mi ero ripromesso, più di una volta, che se un giorno mi fossi trovato alla presenza di Hailè Selassiè gli avrei raccontato la storia del rogo sotto i platani della mia città, e gli avrei chiesto perdono per la mia ragazzata. Ma di fronte a lui non trovo il coraggio di farlo e inizio con il pistolotto politico che mi sono preparato: ‘L’Italia del 1960 non è l’Italia del 1935’.

L’imperatore mi ascolta, irrigidito sull’orlo della sedia, il petto coperto da dodici file di decorazioni e dalle mostrine rosse con le spighe d’oro. I suoi occhi, grandi, scuri, vivacissimi, non si staccano nemmeno per un istante dai miei. Nell’imbarazzo, ricordo che anche il ministro plenipotenziario Renato Piacentini – che era un gigante e aveva il petto irto di medaglie – presentando le sue credenziali ad Hailè Selassiè nel lontano 1922 si sentì intimidire da quegli occhi, al punto da riferire poi agli amici che quell’imperatore piccolo e fragile non soffriva certo di complessi d’inferiorità.

(…) Mi sembra giusto ricordare, come esordio, che la lunga battaglia condotta per la libertà del suo paese, la grandezza d’animo da lui dimostrata prendendo subito le difese degli italiani rimasti dopo la sconfitta in Etiopia, la sua adesione alla dottrina della sicurezza collettiva e l’appoggio dato al risveglio del continente africano, gli hanno procurato anche in Italia molti amici e ammiratori.

(…)Le sue labbra si muovono appena, ma il suo francese è corretto, impeccabile. Gli occhi, mentre parla, sono ora fissi su una parete ricoperta di carte geografiche e di tabelle sullo sviluppo economico dell’Etiopia. Con il busto rigido, i gomiti appoggiati ai braccioli della seggiola, le mani unite sulle ginocchia, l’imperatore non dimostra i quasi settant’anni che ha. Eppure poche esistenze sono state più complete della sua, più travagliate da lotte e avversità. Da quarantatrè anni questo monarca minuto e fragile rappresenta l’Etiopia. Anzi, è l’Etiopia. Reggente dal 1917 al 1930, tiene a bada il rivale fitaurari Habte Ghiorghis, sprona l’imperatrice Zauditù a mostrarsi più liberale, sconfigge, esilia o sottomette, uno dopo l’altro, ras Gugsa, ras Kassa, ras Hailù e il governatore del Sidamo, ribelli all’autorità centrale. Divenuto imperatore, intensifica l’opera di centralizzazione e di modernizzazione del paese.

Ma erano appena rientrati dalle università straniere i primi giovani laureati, che l’Italia fascista, in ritardo di mezzo secolo sulle altre potenze colonialiste, decideva di procurarsi ‘un posto al sole’ a spese dell’unico Stato ancora indipendente dell’Africa. La prima élite etiopica cadeva così sui campi di battaglia e Hailè Selassiè, rientrato ad Addis Abeba cinque anni dopo la sconfitta, doveva ricominciare tutto daccapo, opponendosi al conservatorismo dell’aristocrazia feudale e della Chiesa copta, sventando ogni sorta di congiura e lottando contro la leggerezza e l’incompetenza dei suoi collaboratori. (…)

Sa che il modo più rapido per strappare l’Etiopia alle sue tradizioni feudali è quello di incoraggiare l’istruzione. (…) Probabilmente lo sa anche Hailè Selassiè che, puntando tutto sull’educazione di massa del suo popolo, così facendo mina con le proprie mani il suo enorme potere. Ma non può sottrarsi al destino che affida proprio a lui, monarca assoluto, il compito di portare, anche se con modi paternalistici, un impero feudale verso forme di vita più liberali.

(…) Pur conoscendo le aspirazioni dei somali sull’Ogaden, Hailè Selassiè non sembra molto preoccupato. In quarant’anni di regno è scampato alle congiure di ras ribelli, alle invasioni, ai tranelli tesigli dalle nazioni ‘amiche’ dell’Europa, affinando nel frattempo la sua sensibilità politica, dando prova di una scaltrezza, di una tempestività nelle decisioni e di un’abilità diplomatica fuori dal comune. (…)

E chi oggi teme che egli abbia ceduto alle lusinghe dei sovietici rivela di ignorare tutto della sua politica. Caso mai si potrà incolparlo di eccessiva astuzia, non certo di imprudenza. Hailè Selassiè soffre di una vera allergia per coloro che cercano anche solo di scalfire la sua sovranità. Sempre sospettoso, capta le più lontane minacce con la precisione di uno strumento scientifico. Nasser, che è universalmente conosciuto come un esperto nel difficile gioco del neutralismo positivo, ha ancora molto da imparare da Hailè Selassiè.

La conversazione dura da circa mezz’ora e l’imperatore non ha mutato posizione. Col busto eretto, le mani sottili e piccole posate sulle ginocchia, il volto di marmo illuminato dagli occhi più dolci e insieme più fieri che abbia mai visto, egli sopporta con molta dignità il tremendo carico di titoli che fanno di lui il monarca più blasonato della terra: Re dei Re, Leone Conquistatore della tribù di Giuda, Eletto di Dio, Potenza della Trinità, Capo della Chiesa Copta, imperatore d’Etiopia. Antico, per sangue, come Ninive e Babilonia, discendente diretto di personaggi come Salomone e Saba, più legati alla leggenda che alla storia, fa quasi meraviglia sentirlo parlare di problemi del nostro tempo (…).

Antico anche nell’aspetto (nonostante la divisa kaki da maresciallo) per quella sua folta barba da patriarca e gli occhi che sembrano quelli dei profeti dipinti nelle chiese copte di Lalibela, tradisce invece l’ambizione di non essere secondo a nessuno in Africa (…)

L’imperatore Haile Selassiè I è in piedi. Gli stringo la mano e, a ritroso, esco dalla sala, compiendo i tre inchini di rito. Per un istante, credo di scorgere sulle sue labbra un leggero sorriso, che interpreto come una scusa per il rigore del cerimoniale. Poi, lentamente i battenti della grande porta vengono accostati, ma fino all’ultimo avverto i suoi occhi, dolci, fieri, scurissimi. Gli occhi dei profeti di Lalibela. Gli occhi dei guerrieri scolpiti nella antiche pietre della città santa di Axum.

Quindi due giovani ufficiali mi prendono in mezzo e, imponendomi un passo quasi cadenzato, mi fanno ripercorrere i lunghi corridoi del ghebì di Menelik fino alla scalinata dell’ingresso e al giardino, dove un vecchio leone si stira pigramente al sole.”

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Haile Selassie I - Testimonianze

S. Radhakrishnan, Presidente dell’India, 1965

Addis Abeba, 10 Ottobre 1965

“Vostra Maestà Imperiale, Vostre Eccellenze, e Distinti Ospiti: è stata una fonte di grande piacere per me e per i membri del mio partito, essere stati in grado di accettare il cortese invito di Sua Maestà Imperiale ed essere con voi proprio adesso.

Nel nostro paese e in molte parti del mondo, Sua Maestà Imperiale è affezionatamente ammirato e trattato come un grande e buon uomo. Egli ha sofferto per il popolo dell’Etiopia. Egli ha condotto il suo popolo sul campo di battaglia, e quando la calamità l’ha colpito, egli si è appellato alla coscienza del mondo. Egli ha supplicato la Società delle Nazioni, ha sofferto l’esilio ed è tornato di nuovo al potere, e sin da allora egli sta provando a modernizzare l’Etiopia, portandole tutti i grandi benefici che l’industria moderna, il progresso economico e le moderne riforme possono offrire ad un popolo.

Siamo stati grandemente colpiti dal fatto che, sebbene egli sia un devoto Cristiano, permetta la libertà di pensiero, di espressione e credo ai Musulmani, ai Giudei e ad altri che abitano questa terra. Le calamità che sono portate dall’intolleranza, razziale e religiosa, si osservano in parti differenti del mondo e sono superate soltanto dalla crescita di tolleranza e comprensione, lo spirito che Sua Maestà Imperiale sta mostrando nell’amministrazione del suo paese.”

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Haile Selassie I - Testimonianze

Giuseppe Faraci, Giornalista e Scrittore Italiano, 1965

da “Etiopia Guerra e Pace”, G.Faraci, Edizioni dell’albero, 1965

“Queste pagine si ripromettono di dare testimonianza della saggezza politica e degli alti valori umani con i quali Haile Selassie I, imperatore d’Etiopia, guida il suo popolo, sia nei rapporti interni che in quelli esterni. Tali doti sono state particolarmente espresse a favore degl’italiani dopo il suo ritorno in patria, nel 1941.
Il volume intende ancora manifestare i sentimenti d’ammirazione e d’amicizia che gl’italiani, non soltanto da allora, nutrono per il popolo etiopico e il suo Sovrano.” (…)
“Passano tremila anni e duecentoventiquattro imperatori, e si giunge ad Haile Selassie I.
E’ figlio del principe ras Maconnen e nipote dell’imperatore Menelik II. E’ il sovrano che si è battuto di più per il suo Paese, per allontanare l’Etiopia dal medioevo e condurla sulla via della moderna civiltà.
Instancabile nel lavoro, la sua giornata comincia alle 6 del mattino, e termina la sera a tarda ora. Visita spesso le province, non trascurando i più oscuri villaggi, per raggiungere i quali deve servirsi delle robuste auto adatte alle piste della boscaglia, e spesso dei muli. Dal 5 maggio 1941 al 5 maggio 1965 si calcola che abbia percorso oltre 1.500.000 chilometri nella boscaglia.
Un uomo di 73 anni, minuscolo, mani piccole, sguardo vivo e buono, non privo d’arguzia. La bontà, il senso umano, sono le doti che maggiormente spiccano in lui. Ha energia, vigore, resistenza alle avversità, prontezza nel cogliere le situazioni favorevoli. Intelligentissimo, di eccezionale mitezza d’animo, inflessibile però quando occorre.
Ma soprattutto, è un uomo dotato d’una grande fede. Nei suoi discorsi mai viene dimenticato un appello a Dio, alla Provvidenza. E’ fermamente sicuro che Dio lo assisterà nella guida dell’Etiopia, e gli permetterà di farle raggiungere le mete che egli si prefigge. Ma ha anche fede in se stesso, nel proprio coraggio, nella propria volontà, nella convinzione di rappresentare per il suo popolo il massimo artefice di benessere.
Tutto ciò che Haile Selassie I ha compiuto, è stato dominato da questa duplice forza, Dio e se stesso. I suoi atti d’eroismo, la sua paziente ascesa da ras a Negus Neghesti, il sereno coraggio nella guerra fascista, l’esilio in Inghilterra, non sono che prove di fede in Dio e di fiducia nella propria missione. Il suo rientro nella patria riconquistata rappresenta il giusto premio di tanto carattere e di tanta fede. Egli è l’uomo di governo e il regnante che ha riunito in sé più storia di qualsiasi altro suo pari.”
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