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Haile Selassie I - Testimonianze

Angelo Del Boca, Giornalista e Storico del Colonialismo Italiano, 1960

Tratto da “Da Mussolini a Gheddafi – Quaranta incontri”, 2012 Neri Pozza Editore. (Cap. 20. Hailè Selassiè I)

“Una sera dell’ottobre 1935 fui convocato nei locali della Federazione del fascio a Novara. Avevo dieci anni ed ero balilla. Al Fascio ci distribuirono grosse torce di stoppa e resina. ‘Tu! Prendi questa bottiglia’ mi disse il capocenturia. ‘Stai attento. E’ benzina’. Il personaggio da bruciare era lì in un canto, disteso su una barella, con mani e piedi legati da grosse catene. Era ras Tafari, l’imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè. Fatto di cartapesta, grande al naturale, con un volto piuttosto negroide e incorniciato da una ispida e nerissima barba, aveva la bocca atteggiata a ghigno e nelle profonde orbite brillavano due occhi cattivi, iniettati di sangue.

(…) Il federale, che aveva curato la regia della dimostrazione antinegussita, decise che l’imperatore sarebbe andato al rogo sotto i grandi platani di Baluardi, dove si poteva ricreare l’atmosfera pagana dei grandi riti nazisti. E sotto gli alberi, infatti, la barella fu deposta a terra e mi fu dato l’incarico di cospargere il Negus di benzina. (…) Fu soltanto quando si levarono alte le fiamme e l’imperatore cominciò a contorcersi, quasi avesse voluto liberarsi dalle catene, che cominciai ad avvertire un vago senso di avvilimento, come dopo una cattiva azione.

Una mattina di luglio del 1960, a venticinque anni di distanza, rivedo l’imperatore nel grande ghebì di Menelik, dove lavora, riceve in udienza e una volta alla settimana amministra la giustizia. (…). Quando i due valletti in livrea bianca spalancheranno la porta dello studio privato del re dei re e lui apparirà in fondo al salone, in piedi, accanto a un mappamondo, nella divisa kaki di maresciallo dell’impero, l’ospite varcherà la soglia e farà il primo inchino, poi, camminando sulla passatoia rossa, si porterà a metà circa del salone e lì farà un secondo inchino, e infine un terzo nell’atto di ricevere la stretta di mano del Negus Negast Hailè Selassiè, l’Eletto di Dio, il Leone Conquistatore della tribù di Giuda, il 225° imperatore discendente in linea diretta da Salomone e Saba.

(…) Mi ero ripromesso, più di una volta, che se un giorno mi fossi trovato alla presenza di Hailè Selassiè gli avrei raccontato la storia del rogo sotto i platani della mia città, e gli avrei chiesto perdono per la mia ragazzata. Ma di fronte a lui non trovo il coraggio di farlo e inizio con il pistolotto politico che mi sono preparato: ‘L’Italia del 1960 non è l’Italia del 1935’.

L’imperatore mi ascolta, irrigidito sull’orlo della sedia, il petto coperto da dodici file di decorazioni e dalle mostrine rosse con le spighe d’oro. I suoi occhi, grandi, scuri, vivacissimi, non si staccano nemmeno per un istante dai miei. Nell’imbarazzo, ricordo che anche il ministro plenipotenziario Renato Piacentini – che era un gigante e aveva il petto irto di medaglie – presentando le sue credenziali ad Hailè Selassiè nel lontano 1922 si sentì intimidire da quegli occhi, al punto da riferire poi agli amici che quell’imperatore piccolo e fragile non soffriva certo di complessi d’inferiorità.

(…) Mi sembra giusto ricordare, come esordio, che la lunga battaglia condotta per la libertà del suo paese, la grandezza d’animo da lui dimostrata prendendo subito le difese degli italiani rimasti dopo la sconfitta in Etiopia, la sua adesione alla dottrina della sicurezza collettiva e l’appoggio dato al risveglio del continente africano, gli hanno procurato anche in Italia molti amici e ammiratori.

(…)Le sue labbra si muovono appena, ma il suo francese è corretto, impeccabile. Gli occhi, mentre parla, sono ora fissi su una parete ricoperta di carte geografiche e di tabelle sullo sviluppo economico dell’Etiopia. Con il busto rigido, i gomiti appoggiati ai braccioli della seggiola, le mani unite sulle ginocchia, l’imperatore non dimostra i quasi settant’anni che ha. Eppure poche esistenze sono state più complete della sua, più travagliate da lotte e avversità. Da quarantatrè anni questo monarca minuto e fragile rappresenta l’Etiopia. Anzi, è l’Etiopia. Reggente dal 1917 al 1930, tiene a bada il rivale fitaurari Habte Ghiorghis, sprona l’imperatrice Zauditù a mostrarsi più liberale, sconfigge, esilia o sottomette, uno dopo l’altro, ras Gugsa, ras Kassa, ras Hailù e il governatore del Sidamo, ribelli all’autorità centrale. Divenuto imperatore, intensifica l’opera di centralizzazione e di modernizzazione del paese.

Ma erano appena rientrati dalle università straniere i primi giovani laureati, che l’Italia fascista, in ritardo di mezzo secolo sulle altre potenze colonialiste, decideva di procurarsi ‘un posto al sole’ a spese dell’unico Stato ancora indipendente dell’Africa. La prima élite etiopica cadeva così sui campi di battaglia e Hailè Selassiè, rientrato ad Addis Abeba cinque anni dopo la sconfitta, doveva ricominciare tutto daccapo, opponendosi al conservatorismo dell’aristocrazia feudale e della Chiesa copta, sventando ogni sorta di congiura e lottando contro la leggerezza e l’incompetenza dei suoi collaboratori. (…)

Sa che il modo più rapido per strappare l’Etiopia alle sue tradizioni feudali è quello di incoraggiare l’istruzione. (…) Probabilmente lo sa anche Hailè Selassiè che, puntando tutto sull’educazione di massa del suo popolo, così facendo mina con le proprie mani il suo enorme potere. Ma non può sottrarsi al destino che affida proprio a lui, monarca assoluto, il compito di portare, anche se con modi paternalistici, un impero feudale verso forme di vita più liberali.

(…) Pur conoscendo le aspirazioni dei somali sull’Ogaden, Hailè Selassiè non sembra molto preoccupato. In quarant’anni di regno è scampato alle congiure di ras ribelli, alle invasioni, ai tranelli tesigli dalle nazioni ‘amiche’ dell’Europa, affinando nel frattempo la sua sensibilità politica, dando prova di una scaltrezza, di una tempestività nelle decisioni e di un’abilità diplomatica fuori dal comune. (…)

E chi oggi teme che egli abbia ceduto alle lusinghe dei sovietici rivela di ignorare tutto della sua politica. Caso mai si potrà incolparlo di eccessiva astuzia, non certo di imprudenza. Hailè Selassiè soffre di una vera allergia per coloro che cercano anche solo di scalfire la sua sovranità. Sempre sospettoso, capta le più lontane minacce con la precisione di uno strumento scientifico. Nasser, che è universalmente conosciuto come un esperto nel difficile gioco del neutralismo positivo, ha ancora molto da imparare da Hailè Selassiè.

La conversazione dura da circa mezz’ora e l’imperatore non ha mutato posizione. Col busto eretto, le mani sottili e piccole posate sulle ginocchia, il volto di marmo illuminato dagli occhi più dolci e insieme più fieri che abbia mai visto, egli sopporta con molta dignità il tremendo carico di titoli che fanno di lui il monarca più blasonato della terra: Re dei Re, Leone Conquistatore della tribù di Giuda, Eletto di Dio, Potenza della Trinità, Capo della Chiesa Copta, imperatore d’Etiopia. Antico, per sangue, come Ninive e Babilonia, discendente diretto di personaggi come Salomone e Saba, più legati alla leggenda che alla storia, fa quasi meraviglia sentirlo parlare di problemi del nostro tempo (…).

Antico anche nell’aspetto (nonostante la divisa kaki da maresciallo) per quella sua folta barba da patriarca e gli occhi che sembrano quelli dei profeti dipinti nelle chiese copte di Lalibela, tradisce invece l’ambizione di non essere secondo a nessuno in Africa (…)

L’imperatore Haile Selassiè I è in piedi. Gli stringo la mano e, a ritroso, esco dalla sala, compiendo i tre inchini di rito. Per un istante, credo di scorgere sulle sue labbra un leggero sorriso, che interpreto come una scusa per il rigore del cerimoniale. Poi, lentamente i battenti della grande porta vengono accostati, ma fino all’ultimo avverto i suoi occhi, dolci, fieri, scurissimi. Gli occhi dei profeti di Lalibela. Gli occhi dei guerrieri scolpiti nella antiche pietre della città santa di Axum.

Quindi due giovani ufficiali mi prendono in mezzo e, imponendomi un passo quasi cadenzato, mi fanno ripercorrere i lunghi corridoi del ghebì di Menelik fino alla scalinata dell’ingresso e al giardino, dove un vecchio leone si stira pigramente al sole.”Da “Da Mussolini a Gheddafi – Quaranta incontri”, 2012 Neri Pozza Editore. (Cap. 20. Hailè Selassiè I)

“Una sera dell’ottobre 1935 fui convocato nei locali della Federazione del fascio a Novara. Avevo dieci anni ed ero balilla. Al Fascio ci distribuirono grosse torce di stoppa e resina. ‘Tu! Prendi questa bottiglia’ mi disse il capocenturia. ‘Stai attento. E’ benzina’. Il personaggio da bruciare era lì in un canto, disteso su una barella, con mani e piedi legati da grosse catene. Era ras Tafari, l’imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè. Fatto di cartapesta, grande al naturale, con un volto piuttosto negroide e incorniciato da una ispida e nerissima barba, aveva la bocca atteggiata a ghigno e nelle profonde orbite brillavano due occhi cattivi, iniettati di sangue.

(…) Il federale, che aveva curato la regia della dimostrazione antinegussita, decise che l’imperatore sarebbe andato al rogo sotto i grandi platani di Baluardi, dove si poteva ricreare l’atmosfera pagana dei grandi riti nazisti. E sotto gli alberi, infatti, la barella fu deposta a terra e mi fu dato l’incarico di cospargere il Negus di benzina. (…) Fu soltanto quando si levarono alte le fiamme e l’imperatore cominciò a contorcersi, quasi avesse voluto liberarsi dalle catene, che cominciai ad avvertire un vago senso di avvilimento, come dopo una cattiva azione.

Una mattina di luglio del 1960, a venticinque anni di distanza, rivedo l’imperatore nel grande ghebì di Menelik, dove lavora, riceve in udienza e una volta alla settimana amministra la giustizia. (…). Quando i due valletti in livrea bianca spalancheranno la porta dello studio privato del re dei re e lui apparirà in fondo al salone, in piedi, accanto a un mappamondo, nella divisa kaki di maresciallo dell’impero, l’ospite varcherà la soglia e farà il primo inchino, poi, camminando sulla passatoia rossa, si porterà a metà circa del salone e lì farà un secondo inchino, e infine un terzo nell’atto di ricevere la stretta di mano del Negus Negast Hailè Selassiè, l’Eletto di Dio, il Leone Conquistatore della tribù di Giuda, il 225° imperatore discendente in linea diretta da Salomone e Saba.

(…) Mi ero ripromesso, più di una volta, che se un giorno mi fossi trovato alla presenza di Hailè Selassiè gli avrei raccontato la storia del rogo sotto i platani della mia città, e gli avrei chiesto perdono per la mia ragazzata. Ma di fronte a lui non trovo il coraggio di farlo e inizio con il pistolotto politico che mi sono preparato: ‘L’Italia del 1960 non è l’Italia del 1935’.

L’imperatore mi ascolta, irrigidito sull’orlo della sedia, il petto coperto da dodici file di decorazioni e dalle mostrine rosse con le spighe d’oro. I suoi occhi, grandi, scuri, vivacissimi, non si staccano nemmeno per un istante dai miei. Nell’imbarazzo, ricordo che anche il ministro plenipotenziario Renato Piacentini – che era un gigante e aveva il petto irto di medaglie – presentando le sue credenziali ad Hailè Selassiè nel lontano 1922 si sentì intimidire da quegli occhi, al punto da riferire poi agli amici che quell’imperatore piccolo e fragile non soffriva certo di complessi d’inferiorità.

(…) Mi sembra giusto ricordare, come esordio, che la lunga battaglia condotta per la libertà del suo paese, la grandezza d’animo da lui dimostrata prendendo subito le difese degli italiani rimasti dopo la sconfitta in Etiopia, la sua adesione alla dottrina della sicurezza collettiva e l’appoggio dato al risveglio del continente africano, gli hanno procurato anche in Italia molti amici e ammiratori.

(…)Le sue labbra si muovono appena, ma il suo francese è corretto, impeccabile. Gli occhi, mentre parla, sono ora fissi su una parete ricoperta di carte geografiche e di tabelle sullo sviluppo economico dell’Etiopia. Con il busto rigido, i gomiti appoggiati ai braccioli della seggiola, le mani unite sulle ginocchia, l’imperatore non dimostra i quasi settant’anni che ha. Eppure poche esistenze sono state più complete della sua, più travagliate da lotte e avversità. Da quarantatrè anni questo monarca minuto e fragile rappresenta l’Etiopia. Anzi, è l’Etiopia. Reggente dal 1917 al 1930, tiene a bada il rivale fitaurari Habte Ghiorghis, sprona l’imperatrice Zauditù a mostrarsi più liberale, sconfigge, esilia o sottomette, uno dopo l’altro, ras Gugsa, ras Kassa, ras Hailù e il governatore del Sidamo, ribelli all’autorità centrale. Divenuto imperatore, intensifica l’opera di centralizzazione e di modernizzazione del paese.

Ma erano appena rientrati dalle università straniere i primi giovani laureati, che l’Italia fascista, in ritardo di mezzo secolo sulle altre potenze colonialiste, decideva di procurarsi ‘un posto al sole’ a spese dell’unico Stato ancora indipendente dell’Africa. La prima élite etiopica cadeva così sui campi di battaglia e Hailè Selassiè, rientrato ad Addis Abeba cinque anni dopo la sconfitta, doveva ricominciare tutto daccapo, opponendosi al conservatorismo dell’aristocrazia feudale e della Chiesa copta, sventando ogni sorta di congiura e lottando contro la leggerezza e l’incompetenza dei suoi collaboratori. (…)

Sa che il modo più rapido per strappare l’Etiopia alle sue tradizioni feudali è quello di incoraggiare l’istruzione. (…) Probabilmente lo sa anche Hailè Selassiè che, puntando tutto sull’educazione di massa del suo popolo, così facendo mina con le proprie mani il suo enorme potere. Ma non può sottrarsi al destino che affida proprio a lui, monarca assoluto, il compito di portare, anche se con modi paternalistici, un impero feudale verso forme di vita più liberali.

(…) Pur conoscendo le aspirazioni dei somali sull’Ogaden, Hailè Selassiè non sembra molto preoccupato. In quarant’anni di regno è scampato alle congiure di ras ribelli, alle invasioni, ai tranelli tesigli dalle nazioni ‘amiche’ dell’Europa, affinando nel frattempo la sua sensibilità politica, dando prova di una scaltrezza, di una tempestività nelle decisioni e di un’abilità diplomatica fuori dal comune. (…)

E chi oggi teme che egli abbia ceduto alle lusinghe dei sovietici rivela di ignorare tutto della sua politica. Caso mai si potrà incolparlo di eccessiva astuzia, non certo di imprudenza. Hailè Selassiè soffre di una vera allergia per coloro che cercano anche solo di scalfire la sua sovranità. Sempre sospettoso, capta le più lontane minacce con la precisione di uno strumento scientifico. Nasser, che è universalmente conosciuto come un esperto nel difficile gioco del neutralismo positivo, ha ancora molto da imparare da Hailè Selassiè.

La conversazione dura da circa mezz’ora e l’imperatore non ha mutato posizione. Col busto eretto, le mani sottili e piccole posate sulle ginocchia, il volto di marmo illuminato dagli occhi più dolci e insieme più fieri che abbia mai visto, egli sopporta con molta dignità il tremendo carico di titoli che fanno di lui il monarca più blasonato della terra: Re dei Re, Leone Conquistatore della tribù di Giuda, Eletto di Dio, Potenza della Trinità, Capo della Chiesa Copta, imperatore d’Etiopia. Antico, per sangue, come Ninive e Babilonia, discendente diretto di personaggi come Salomone e Saba, più legati alla leggenda che alla storia, fa quasi meraviglia sentirlo parlare di problemi del nostro tempo (…).

Antico anche nell’aspetto (nonostante la divisa kaki da maresciallo) per quella sua folta barba da patriarca e gli occhi che sembrano quelli dei profeti dipinti nelle chiese copte di Lalibela, tradisce invece l’ambizione di non essere secondo a nessuno in Africa (…)

L’imperatore Haile Selassiè I è in piedi. Gli stringo la mano e, a ritroso, esco dalla sala, compiendo i tre inchini di rito. Per un istante, credo di scorgere sulle sue labbra un leggero sorriso, che interpreto come una scusa per il rigore del cerimoniale. Poi, lentamente i battenti della grande porta vengono accostati, ma fino all’ultimo avverto i suoi occhi, dolci, fieri, scurissimi. Gli occhi dei profeti di Lalibela. Gli occhi dei guerrieri scolpiti nella antiche pietre della città santa di Axum.

Quindi due giovani ufficiali mi prendono in mezzo e, imponendomi un passo quasi cadenzato, mi fanno ripercorrere i lunghi corridoi del ghebì di Menelik fino alla scalinata dell’ingresso e al giardino, dove un vecchio leone si stira pigramente al sole.”

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